Nome dell'autore: Eutopia

BE OPEN MINDED: Primo workshop di clownterapia a San Benedetto

Si è svolto il 10 Maggio 2021 il primo workshop locale, incentrato sulla clown-terapia, nell’ambito del progetto ERASMUS+ BE OPEN MINDED.

Insieme al clown Massimo Cicchetti e Alceste Aubert, abbiamo esplorato con un gruppo di ragazzi di San Benedetto l’importanza della clownterapia, soprattutto in situazioni particolari quali l’ospedalizzazione sia di anziani che di bambini. La clownterapia è un elemento importante del nostro progetto, perché contribuisce a smorzare momenti di grande tensione del paziente, sia riguardo la salute sia per quanto riguarda le problematiche familiari e personali.

– Dovrebbe essere molto più incentivata – afferma Alceste – Si tratta di una tecnica che ha una grandissima efficacia per quanto riguarda l’impatto sulla persona che è in situazione di grande disagio e anche di grande sofferenza -.

Lo stesso Alceste, insieme a Jack, il suo golden retriever, saranno a breve protagonisti di un secondo workshop sulla pet terapia. Stay tuned!

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BE OPEN MINDED

La clown e pet- terapia in Europa

E’ iniziato il 22 dicembre 2020 con il kick-off meeting online il nostro progetto Erasmus+ “Open be minded”, una partnership strategica nel settore dell’educazione degli adulti, che durerà 18 mesi con partner da Polonia, Grecia, Regno Unito, Belgio e Italia.

Obiettivi del progetto sono la ricerca di nuovi metodi di lavoro con gli adulti (anziani e persone con problemi di salute), e la promozione di nuovi metodi di lavoro dell’educatore, tramite lo scambio di conoscenze, esperienze e buone pratiche.

L’Italia porterà in Europa l’esperienza della clown e pet terapia.

La clownterapia, detta anche terapia del sorriso, è l’applicazione di tecniche di clownerie in ambito sanitario, allo scopo di migliorare l’umore dei pazienti e familiari. Essa viene attuata da persone che scelgono il clown come stato di coscienza per entrare in relazione con persone ospedalizzate o in difficoltà e sono appositamente formate per operare nel settore sociosanitario, attraverso tecniche derivate dall’improvvisazione teatrale, dall’arte del clown, dalla microprestidigitazione, dal teatro.

Negli ultimi anni si è anche molto parlato di un tipo di terapia che si basa sul contatto con un animale: la “pet therapy”. 

Il termine è stato coniato dallo psichiatra infantile Boris Levinson nei primi anni ‘60 e significa letteralmente “terapia dell’animale da affezione”. Si tratta di una pratica di supporto ad altre forme di terapia tradizionali, che sfrutta gli effetti positivi determinati dalla vicinanza di un animale a una persona affetta da disagio mentale, disturbi del comportamento o diversamente abile. 

Alceste Aubert partecipante al progetto con Eutopia, ci spiega i vantaggi di tale terapia.

«Gli interventi assistiti con gli animali si svolgono non solo in contesti terapeutici, ma anche in quelli educativi o ludici – spiega Aubert –. Questi interventi funzionano grazie alla relazione che si instaura fra un animale domestico e la persona (bambino, anziano, malato o disabile). 

Una sintonia complessa e delicata stimola l’attivazione emozionale e favorisce l’apertura a nuove esperienze e modi di comunicare. L’animale non giudica, non rifiuta, si dona totalmente, stimola sorrisi, aiuta la socializzazione, aumenta l’autostima e non ha pregiudizi. A livello psico-fisiologico, in sua compagnia, diminuisce il battito cardiaco e si riducono le paure e le ansie. Viene favorita, inoltre, la piena espressione della persona non solo attraverso il linguaggio verbale. 

Nella maggioranza dei casi – continua Aubert – gli interventi di “pet therapy” vengono attivati con bambini, anziani e persone diversamente abili. Queste ultime, grazie alla relazione con l’animale, possono trovare nuovo entusiasmo e motivazione nell’affrontare i piccoli compiti quotidiani e sperimentare una modalità facile e spontanea di interazione. Fondamentale, però, è che ogni progetto sia costruito “ad personam”, valutando cioè le esigenze specifiche e individuali».

Protagonista della “pet therapy” applicata da Aubert per allietare il soggiorno in ospedale di bambini e familiari, è Jack, un simpaticissimo golden retriever. 

Jack vanta un curriculum di tutto rispetto. Attività nella Residenza Anziani S. Giuseppe (centro Alzheimer) di San Benedetto del Tronto anche con la clown-animazione, giornata in compagnia dei bambini del centro infanzia Zazù di Valmir di Petritoli, premio speciale per l’impegno nel sociale al concorso “Incondizionatamente Amici 2015” a San Benedetto del Tronto, Favole a merenda con bambini. Giornate con giovani con sindrome di down.

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Call for applicants – Training a ST Albans (UK)

Quando

Dal 1 al 7 Maggio 2020.

Cosa

Il corso di formazione è progettato per i leader che lavorano direttamente con e per i giovani come operatori giovanili, formatori, insegnanti, facilitatori e leader della comunità.

Il programma si baserà sull’educazione non formale attraverso metodi come il dialogo, discussione di gruppo e autoriflessione, bodywork, meditazione, yoga, movimento, danza e gioco, scambio di storie ed esperienze personali, imparare gli uni dagli altri, per creare una comprensione condivisa di ciò che è necessario per portare più fiducia, sostegno ed empatia nel lavoro con i giovani.
Ci saranno anche sessioni sulla progettazione e pianificazione di attività concrete di follow-up e disseminazione per garantire un impatto più ampio del progetto. Gli aspetti trasversali del corso di formazione saranno il programma Erasmus +, lo sviluppo professionale e organizzativo e la promozione di nuove partnership e progetti.

Dove

Saint Albans (Regno Unito), presso Academy St Albans

Chi

Al training parteciperanno ragazze e ragazzi provenienti da Grecia, Cipro, Malta, Romania, Lettonia, Turchia, Regno Unito, e Italia.
I partecipanti saranno selezionati dalle organizzazioni partner in stretta collaborazione con Tree of Colours CIC secondo i seguenti criteri:
– essere operatori giovanili, insegnanti, formatori, facilitatori e leader della comunità, a lavorare direttamente con e per i giovani su base giornaliera;
– essere disposti a praticare la meditazione e diverse attività sportive durante il corso;
– avere almeno 18 anni ed essere residenti nel paese dell’organizzazione partner designante;
– essere fluente in inglese, essere disposto e impegnato a lavorare e contribuire al successo delle attività;
– impegnarsi a svolgere compiti preparatori concordati con Tree of Colours CIC ed essere disposti a dare seguito alla formazione del seminario attraverso un lavoro attivo con i giovani, idealmente in collaborazione con la loro organizzazione partner.
In questo progetto saranno selezionati partecipanti che non hanno già frequentato più di due mobilità giovanili e non più di un SVE a lungo termine (oltre due mesi).

Come

Vitto e alloggio saranno offerti dall’Associazione ospitante (Tree of Colours CIC).
Per il trasporto, da progetto saranno rimborsati 275€ a partecipante.
N.B. Non sappiamo ancora cosa succederà con la Brexit… potrebbe essere necessario fare il visto prima di partire.

Infopack


Per candidarti

Scarica l’application form, compilalo e invialo a info@associazioneeutopia.org

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Chi ha paura di Liliana Segre?

Hate speech e libertà d’espressione

Come molti ormai sapranno, durante il brutto Ottobre appena trascorso, l’hate speech è giunto al Senato della Repubblica Italiana, e quindi al parossismo di uno dei massimi utilizzatori di questo orrendo strumento di comunicazione che si paragona pubblicamente ad una sopravvisuta della Shoah in quanto “vittima di odio e di minacce”.

Evitiamo, per una volta, di ribadire qui quanto, ormai da diverso tempo, scriviamo sul rapporto strettissimo che c’è tra comunicazione online e uso dell’hate speech come strumento di marketing politico. Se non sapete come la pensiamo in merito, potete leggere o rileggere i nostri articoli sull’acquisizione del consenso e sulla vicenda SeaWatch: rimangono tuttora validi.

Abbiamo però trovato interessante approfondire alcune opinioni negative sulla Commissione parlamentare contro l’hate speech istituita il 30 Ottobre 2019 su iniziativa della Senatrice Liliana Segre, in particolare riguardo la “libertà d’espressione” che questa Commissione potrebbe limitare, per alcuni minacciare.

Premessa: la cosiddetta Commissione Segre, a quanto abbiamo fin qui avuto modo di vedere dagli atti legislativi di istituzione, non prevede tra i suoi scopi limitazioni alla libertà d’espressione, ma attività di studio, ricerca e elaborazione di strategie di contrasto all’hate speech.

Il processo alle intenzioni che abbiamo notato subito dopo (la censura! lo Stato ci dice cosa possiamo o non possiamo dire! metteranno il patriottismo fuorilegge!) denota o malafede, o scarsa cognizione del problema.

Lo Stato Italiano regola già, sotto diversi aspetti, cosa si può o non può comunicare in pubblico. Non ci sembra che la Commissione abbia introdotto novità in merito.
Magari le introdurrà domani: tuttavia i fatti a oggi dicono che nessuna azione è stata intrapresa per modificare le leggi sulla libertà d’espressione attualmente in vigore. Dunque perché tanto chiasso?

Ci sembra il caso di chiarire un paio di punti, visto che il dibattito pubblico sull’argomento è sempre più inquinato (a volte consapevolmente e volontariamente).

1. L’hate speech non è un’opinione.

Avere un’opinione negativa, anche forte, anche comunicata in maniera volgare, oltre a non essere reato, non si configura di per sé come discorso d’odio. Offendere una persona perché parte di una minoranza (etnica, religiosa, di orientamento sessuale o di altro tipo) sì, è hate speech.

Supponiamo ad esempio io abbia in particolare antipatia il politico X, per le soluzioni politiche che propone, per l’atteggiamento con cui si pone nella sua comunicazione pubblica, o foss’anche perché mi dà particolarmente fastidio la sua faccia.
Sotto un suo post su Twitter in cui sciorina le sue “ricette” che ritengo inadeguate e demagogiche, io potrei rispondere: “ma che cazzo dici? ma sei coglione o fai apposta?“.
Starei sicuramente usando un epiteto volgare e poco consono ad un dialogo, ma non starei facendo hate speech.
Supponiamo ora che il politico X presenti tratti somatici tipici dell’area subsahariana.
Caso 1) Gli rispondo: “ma che cazzo dici? ma sei coglione o fai apposta?” Ebbene, questo continua a non essere hate speech. Sto attaccando il personaggio pubblico e le sue opinioni, che trovo errate. Lo sto attaccando in maniera volgare, ma senza odio.

Caso 2) Gli rispondo: “ma che cazzo dici, n**** di merda? ma sei coglione o fai apposta? perché non torni nel tuo paese?“.
Nel secondo caso, io non sto attaccando solo il politico e le sue opinioni, ma l’uomo e i suoi tratti somatici, abusando di stereotipi e pregiudizi legati al pigmento della sua pelle senza riguardo per la sua persona, per i suoi diritti, per la sua storia. QUESTO E’ HATE SPEECH.

Ciò premesso, appare evidente come l’hate speech contro un individuo maschio, dell’Italia settentrionale, eterosessuale e di mezza età, oltretutto privo di evidenti difetti fisici, si configuri come qualcosa di molto, molto improbabile.
Ci spingiamo più in là: c’è un buon 99% di possibilità che l’individuo summenzionato (maschio, dell’Italia settentrionale, eterosessuale e di mezza età, privo di evidenti difetti fisici) non sia mai stato vittima di hate speech in vita sua.

Curioso come spesso siano proprio individui di questo tipo (maschi, dell’Italia settentrionale, eterosessuali e di mezza età, privi di evidenti difetti fisici) a fare le Cassandre dei pericoli per la libertà d’espressione.

E veniamo al secondo punto.

2. La nostra “libertà d’espressione” non comprende il diritto di far ricorso all’hate speech.

Intendiamoci: la libertà d’espressione è cosa sacrosanta. Rappresenta un diritto umano inalienabili e indica, tra le altre cose, il grado di maturità e di vitalità di una democrazia.
Tuttavia, le leggi della Repubblica Italiana, come quelle di quasi tutti gli Stati Europei, prevedono già, nei fatti, dei limiti a cosa è possibile comunicare e come, senza incappare in sanzioni civili o penali.
Se fai il giornalista, ad esempio, non puoi scrivere impunemente “Tizio è un assassino“, se questa espressione non corrisponde a verità: stai creando, volontariamente o meno, un danno a Tizio, e quindi verrai punito.
Non solo: la cosiddetta “Legge Mancino”, del 1995, già sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista, e aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.
E sanziona questi comportamenti per lo stesso identico motivo per cui punisce un giornalista che scrive il falso: creano danni a terzi, ad altri membri della comunità.

Quando si tratta di hate speech, però, e in particolar modo di hate speech online, queste leggi vengono spesso ignorate, quando non impugnate nel nome della libertà d’espressione.
Le notizie false con chiaro intento discriminatorio, anche se pubblicate da politici e diffuse a milioni di persone, non vengono sanzionate dalla magistratura. Gli epiteti razziali, omofobi, sessisti ecc. nella maggioranza dei casi non vengono denunciati, e quindi rimangono impuniti.
Il caso di Laura Boldrini non è tuttavia isolato: la magistratura ha già gli strumenti per punire il discorso d’odio, quando viene denunciato.

Aumentare la consapevolezza dei cittadini riguardo le proprie responsabilità nell’uso degli strumenti di comunicazione (online e non) sembrerebbe dunque essere la strada da percorrere, ma è curiosamente la meno battuta.

A livello politico, si preferisce spesso colpevolizzare le piattaforme social (Facebook e Twitter su tutte) che offrono spazi per la comunicazione, anziché chiamare gli utenti alle proprie responsabilità di fronte agli altri utenti, e dunque di fronte alla legge.

Perché? Beh, secondo noi perché quegli utenti votano.

3. Le voci di chi usa l’hate speech invadono il dibattito, quelle delle vittime vengono ignorate.

Crediamo che confondere “libertà d’espressione” e contrasto al discorso d’odio, quando non è fatto in modo pretestuoso per creare false dicotomie (perché bisogna difendere Liliana Segre e non me?), sia il sintomo che il concetto di hate speech non è stato ben comunicato.
Grossa parte del problema è rappresentato dal fatto che alle vittime si nega la voce.
In altre parole: se determinati epiteti siano o no razzisti, sessisti, omofobi o quant’altro vogliono deciderlo, in perfetta solitudine, i soliti maschi bianchi di mezz’età. Per inciso, una buona fetta di quelli che di questi epiteti (sul web e fuori) fanno regolare uso.

A questo proposito, chiudiamo consigliando la lettura di questo articolo di Oiza Queenday Obasuyi, giovane e acuta penna che seguiamo insieme a molte altre voci di Italiani senza cittadinanza che nel dibattito pubblico, impegnato a inseguire paragoni vomitevoli tra vittime dell’olocausto e politici, non trovano il posto che meriterebbero.

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Togliere diritti agli anziani non aggiunge diritti ai giovani

Leggiamo qui un post dal blog di Beppe Grillo che affronta una tematica che, come sapete, ci sta molto a cuore: la disuguaglianza generazionale.

Il mondo è sempre più anziano, esordisce Grillo (in realtà ad essere in declino demografico non è il mondo intero, ma l’Occidente, e l’Italia in modo particolare, ma ok).
Gli anziani, si sa (lo dice la scienza) sono egoisti, pensano solo ai propri interessi, e quando votano fanno disastri (avete visto la Brexit fortemente voluta e propagandata con notizie false dal nostro grande amico Farage? Ecco, colpa dei vecchi egoisti).

Abbassare l’età del voto a 16 anni, come si sta attualmente proponendo seguendo alla lettera una profezia del Vate datata non a caso 2016, non sembra abbastanza per evitare i disastri dei vecchi egoisti.
Si passa al dunque:

Una proposta, già ampiamente discussa dal filosofo ed economista belga, Philippe Van Parijs – nonché tra i più grandi sostenitori del reddito universale – potrebbe essere quella di privare il diritto di voto agli anziani, ovvero eliminare il diritto di voto ad una certa età (oppure dare ai genitori voti per procura per ciascuno dei loro figli a carico).
E’ questa la teoria per una democrazia più efficace quale garanzia di giustizia sociale del professor Van Parijs, in un articolo della rivista accademica Philosophy and Public Affairs, che ai più potrà sembrare drastica, ingiusta e insensata.

Wow. Pare dunque ci sia un Professore che pubblica articoli dall’alto valore scientifico, e in cui sostiene che il modo più efficace per garantire la giustizia intergenerazionale in democrazia sia privare gli anziani del diritto di voto!
Tutto ciò è tanto scioccante quanto falso.

Citiamo letteralmente il paper che Grillo linka al suo articolo:

Disfranchising the elderly, it thus turns out, is only one, and not exactly the most promising, of at least seven different ways in which one can imagine altering the balance of electoral power between the various age categories [1].

Eliminare i diritti civili degli anziani, come si vede, è soltanto uno, e non proprio il più promettente, di almeno sette differenti modi in cui possiamo immaginare di alterare l’equilibrio elettorale tra le varie categorie d’età.

Quello che Grillo propone nel suo articolo non ci sembra assolutamente in linea con quanto scrive il Prof. Van Parijs nel suo paper.
Non c’è niente di assurdo, ingiusto o insensato in quanto costui scrive: il paper passa in rassegna tutta la letteratura di proposte di “ingegneria istituzionale” volte a riequilibrare il rapporto tra votanti giovani e anziani, elencando e analizzando una serie di possibili misure ed esaminandone lati positivi, criticità, implicazioni sociali e morali.

Non solo: il paper di Van Parijs prende le mosse e critica, a volte con ironia, proprio un articolo degli anni ’70 di un Professore Universitario che sosteneva, lui sì in maniera piuttosto trenchant, la necessità di privare gli anziani del diritto di voto [2].

Grillo insomma fa del palese “cherry picking” da un paper scientifico (tra l’altro pubblicato nel 1998) che non suggerisce in alcun modo che privare gli anziani dei diritti politici sia l’unico modo, né il più efficace, di ottenere equità generazionale.

Ora: se, come sostiene un leitmotif piuttosto in voga, il fascino e il pericolo maggiori dei populisti stanno nel loro “offrire agli elettori risposte semplici a problemi complessi“, è evidente che dovremmo archiviare questo post nella categoria “populismo“.

Anche prendendo il messaggio per quello che è (non il tentativo di innescare un dibattito serio sull’argomento, ma una sparata volta a far starnazzare le anatre), ci pare comunque necessario aggiungere un paio di cose.


1. I diritti non sono un insieme finito

La prima obiezione che muoviamo è di natura, per così dire, logico-matematica: i diritti non sono un insieme finito, non ce n’è scarsità.
Non è mai (mai, mai, mai!) successo che per garantire diritti a chi non li aveva essi siano stati sottratti a chi li possedeva.

La fallacia logica che sottende le affermazioni di Grillo è molto chiara, e pericolosa: per dar voce ai giovani bisogna toglierla agli anziani. Una falsa dicotomia.

Lo stesso paper che viene citato per dare una parvenza di “scientificità” a quest’artificio retorico, come abbiamo visto, non stabilisce in alcun modo che l’unico modo per avere equità generazionale sia colpire gli anziani nei loro diritti. Leggere per credere.

Ma perché Grillo usa questa falsa dicotomia? E perché ha fatto tanto clamore?

Perché è esattamente quello che una parte della generazione insostenibile vuole: sentirsi dire che i giovani vogliono fargli la pelle, ammazzarli, accantonarli. Così da poter continuare a giustificare i propri comportamenti insostenibili e i propri privilegi come “autodifesa”.

Perché è esattamente quello che una parte delle nuove generazioni vuole: sentirsi dire che la loro mancanza di autonomia e di reddito è tutta colpa di mamma e papà, al limite di nonno e nonna. Così da scaricare tutte le responsabilità su qualcun altro e non dover provare nulla a sé stessi.


2. Questo modo di comunicare ci spaventa

La falsa dicotomia è uno degli strumenti retorici più utilizzati da chi vuole polarizzare il discorso. Un esempio facile facile di hate speech ce lo chiarisce meglio:

Questa particolare falsa dicotomia presuppone che negli “alberghi” dovrebbero esserci gli uni e non gli altri, senza che vi sia alcuna correlazione tra le due situazioni. Il sottinteso è che bisogna “eliminare” gli stranieri, se si vuole aiutare gli Italiani vittima del terremoto.
Una retorica disgustosa che sta funzionando piuttosto bene.

Allo stesso modo, il post di Grillo parte da dati, situazioni, problemi dolorosamente reali, per giungere a categorizzare un colpevole-bersaglio (“gli anziani irresponsabili“) rimuovendo il quale, si rimuoverebbe magicamente il problema, e giustapponendo una categoria di vittime, i “giovani” (meglio se appassionati dei video di Cicciogamer).

Ci viene dunque il sospetto che, visti gli strumenti retorici che si stanno mettendo in campo, si voglia applicare lo stesso metodo di acquisizione del consenso ad un nuovo target, i giovani, polarizzando il discorso intorno ad un problema che è reale, fin troppo reale: le disuguaglianze generazionali.


3. I privilegi, quelli sì sono un insieme finito

I privilegi sono, al contrario dei diritti, un insieme finito: se sono garantiti a un segmento di popolazione, devono essere negati a tutti gli altri, che glieli devono pagare.

Un’intera generazione di lavoratori e di imprenditori Italiani, ad esempio, è tuttora dotata di numerosi privilegi d’ogni tipo che ne sussidiano l’inefficienza, l’insostenibilità, l’inadeguatezza ai tempi.

Sarebbe secondo noi non solo possibile, ma equo rimuovere parte di questi privilegi, accumulati dagli anni ’70 ai giorni nostri da una parte della popolazione Italiana, curiosamente proprio quella che ha beneficiato di anni di politiche pubbliche fatte di prebende e sussidi finanziati in deficit.

Il problema non è l’età: il problema è, come direbbe Trilussa, che ieri uno si è mangiato due polli, un altro zero polli, ma oggi l’Oste ha presentato a entrambi il conto per un pollo a testa.

Comprendiamo certamente (come lo comprende anche il Prof. Van Parijs nel suo paper) che i privilegiati in Italia, proprio per ragioni demografiche, sono moltissimi, e votano in massa per mantenere i propri privilegi.

Tuttavia, crediamo che, da parte di un politico, abrogare quell’abominio denominato “quota cento”, per dirne una, sarebbe un segnale molto più concreto dell’intenzione di voler ristabilire un minimo di equità generazionale, piuttosto che stuzzicare con la retorica i problemi delle persone (giovani o vecchie che siano) per rastrellare qualche voto ad un partito in caduta libera nei sondaggi.


[1] Philippe Van Parijs, “The Disfranchisement of the Elderly, and Other Attempts to Secure Intergenerational Justice” in Philosophy and Public Affairs, Vol. 27, No. 4 (Autumn, 1998), p. 308.

[2] Douglas J. Stewart, “Disfranchise the Old,” in New Reputblic 29, No. 8 (1970), pp. 20-22.

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