Che fine ha fatto il futuro?

Le disuguaglianze generazionali nel libro di Marina Mastropierro

Ci siamo fiondati, non appena saputo che esisteva, a leggere il libro di Marina Matropierro, Ricercatrice in Sociologia, edito da Ediesse Edizioni il 23 Maggio di quest’anno. Ci siamo fiondati perché, nonostante di disuguaglianze generazionali si inizi da qualche tempo a parlare, (un bell’esempio qui: un ottimo articolo di Valigia Blu sull’ultima umiliazione mediatica ai giovani, la stronzata del “il lavoro c’è ma i giovani non vogliono lavorare“), ci mancano ancora alcuni strumenti di base per discuterne, anche a livello di policy, con cognizione di causa. E esattamente a questo serve la Ricerca Universitaria, quando è fatta bene.

Ma procediamo con ordine…

L’incipit

In Italia si assiste alla presenza di una nuova forma di disuguaglianza: quella generazionale. Esiste una nuova classe di esclusi dal benessere e dalle opportunità del paese che si fa fatica a nominare: i giovani.

La struttura del libro

Si tratta di un libro snello (circa 150 pagine), ma pregno.
Dopo una premessa programmatica, che svela fin dall’incipit il focus dell’indagine condotta, si passa a una disamina “a volo d’uccello” delle politiche di welfare dopo il “Trentennio glorioso” (primo e secondo dopoguerra). La rottura del “patto generazionale” segna il passaggio da politiche pubbliche volte a favorire i giovani, la loro educazione e il loro reddito, per sostenere la creazione di nuovi nuclei familiari, ad enormi investimenti in politiche assistenzialistiche rivolte a individui in età matura (pre-pensionamenti) e agli anziani (Sanità).
A segnare il passaggio dell’Italia da Stato che coltiva giovani a Stato che cura vecchi sarebbero intervenuti, secondo l’Autrice, tre eventi particolarmente traumatici: i movimenti giovanili e femministi, la “seconda transizione demografica”, e lo choc petrolifero del ’73.
Dopo questa fase storica (i primi anni 70 del 1900), si assiste da un lato a una sorta di “criminalizzazione” del giovane come problema da risolvere, dall’altro a una “infantilizzazione” del giovane imbelle da attivare.
Le politiche sociali, improntate da queste belle schematizzazioni, sono analizzate con dovizia di particolari nei loro impatti desolanti sulla vita economica, culturale e politica del Belpaese.
La seconda parte si apre con un case study riguardo le politiche giovanili, i celebrati “Bollenti spiriti” della Puglia di Vendola e il loro oggettivo fallimento nel medio periodo.
In seguito alla disamina e alla restituzione delle esperienze di coloro che a quei progetti e a quelle iniziative presero parte, l’Autrice propone un “Manifesto di welfare generazionale”, strutturato sulla base dei problemi esaminati.


Cosa ci è piaciuto

  1. La Ricerca fatta bene e su problemi reali. Se hai i dati e la metodologia per interpretarli… ecco che il tuo punto di vista può acquistare una qualche credibilità. Altrimenti sono solo minibot.
  2. C’è un’ottima pars destruens. L’analisi e la decostruzione delle dinamiche politiche e sociali che hanno portato alle evidenti disuguaglianze generazionali che viviamo oggi ci sembra solida. Il case study scelto, e soprattutto le storie di quei “ragazzi e ragazze”, sono emblematiche e parlano a tutti noi.
  3. Il punto di vista. Rileggere la storia delle politiche pubbliche Italiane sul welfare come cambio di rotta (da focus sui giovani a focus sui vecchi) basato su eventi “traumatici”, ha un senso politico oltre, che scientifico, che anche noi troviamo necessario perseguire. Questa situazione di disuguaglianza è stata creata nel corso dei decenni: non è piovuta dal cielo insieme all’Euro.
  4. C’è una pars construens Tre sono le proposte di policy che avanza la Ricercatrice per ovviare alle disuguaglianze generazionali:
    – reddito minimo garantito;
    – riduzione (e regolamentazione, nel caso dei precari) dell’orario di lavoro;
    – Università gratuita.
    Al di là di quanto e come si possa essere d’accordo nel merito (non lo approfondiremo qui), ci sembrano proposte logiche e coerenti coi problemi individuati nel corso dell’analisi, e questo non possiamo che apprezzarlo. Ci piacerebbe che fossero dibattute, che se ne parlasse.

Cosa ci è piaciuto meno

Mhm… facciamo davvero fatica a muovere critiche. Diciamo che forse un po’ troppo corto?
L’analisi delle politiche pubbliche rivolte ai giovani è piuttosto puntuale e il case-study analizzato molto calzante, ma a nostro parere restano ancora tantissimi aspetti delle disuguaglianze generazionali da approfondire: a livello storico, politologico e soprattutto economico.
Speriamo vivamente che l’Autrice, e gli altri Ricercatori che con lei dialogheranno, continuino a scavare.


La citazione

[…] giovani che esprimono nuove identità lavorative, caratterizzate da una forte componente vocazionale ed espressiva. Gli ambiti produttivi interessano principalmente le dimensioni culturali, ambientali, sociali, artistiche, didattiche e pedagogiche, tecnologiche e della comunicazione, legate dunque al macrosettore della conoscenza e delle competenze ad alto contenuto umano (High skills). Sembrano essere soggetti portatori di una nuova sensibilità generazionale riconducibile al lavoro. Nello stesso tempo però le condizioni economiche e contrattuali non sono sufficienti spesso a garantire un tenore di vita autonomo, tanto è che la maggior parte di loro si definisce “precario”.

Vi ci riconoscete? Noi sì.

Concetti-chiave

Ci portiamo via, chiuso questo libro, alcuni concetti-chiave che vogliamo fare nostri e approfondire (anche con l’autrice, se vorrà):

1. Autonomia = Emancipazione
C’è un concetto su cui l’Autrice insiste, che ci trova molto d’accordo, di cui si parla e si scrive poco, e di cui la politica si occupa ancora meno: non esiste emancipazione, cioè passaggio alla vita adulta, senza autonomia. Autonomia intesa come l’insieme delle condizioni materiali di indipendenza (o meglio, di non dipendenza) dalla famiglia. Un/a giovane che, pur lavorando 8-10-12 ore al giorno, non riesce a soddisfare i propri bisogni materiali (affitto, bollette, cibo, vestiario), semplicemente non è autonomo/a. Non è choosy. Non è un bamboccione.

2. Ci vogliono “ritardati”.
Il ritardo nel conseguimento dell’autonomia da parte dei giovani Italiani non è dovuto agli individui, ma al sistema-paese che lo ritarda, spesso consapevolmente. Lavoratori ed esseri umani autonomi (leggi sopra) diventano “magicamente” sempre meno inclini ad accettare “tirocini”, “stage”, contratti precari, e soprattutto le condizioni di lavoro che li accompagnano.
Qui sta il punto: l’economia Italiana, sclerotizzata nelle logiche padronali e antistoriche di tantissime micro, piccole e medie imprese, non può permettersi che i giovani diventino autonomi. La produttività del lavoro è troppo bassa per ragioni di scarsa innovatività e anzianità (più mentale che biologica) di tantissimi imprenditori e dipendenti, e il costo del lavoro troppo alto: si è scelto (non ieri, almeno una ventina di anni fa) che a pagare la differenza dovessimo pensarci noi.

3. Non ne esci da solo/a.
C’è un paradosso di fondo che abbiamo letto tra le pagine del libro e ci ha colpito: l’autonomia non si conquista da soli. Questo perché le condizioni sociali, politiche ed economiche, cioè il framework in cui un gruppo di individui nasce e si forma, da solo non basta a creare unità generazionale, consapevolezza cioè dei propri valori e della propria forza riformatrice.
A parole nostre: in Italia, contro i giovani, è in corso una guerra. Da almeno vent’anni. E la stiamo perdendo. E la stiamo perdendo perché combattiamo ognuno per suo conto, contro un esercito schierato compatto.


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